Interventi e pubblicazioni, Novità CEDU

Un contributo relativo alla esecuzione delle sentenze della CEDU. Giurisprudenza di Merito – Milano, Ed. Giuffrè Supplemento del Dicembre 2008

Efficacia delle sentenze di condanna
della Corte di Strasburgo
ed esecuzione delle stesse

L’art.46 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) impone agli stati l’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo ed attribuisce al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il potere di sorvegliare sulla esecuzione delle stesse. Tuttavia tale obbligo, ed il relativo controllo, è limitato al raggiungimento del risultato indicato nella sentenza, lasciando alla discrezione delle Alte Parti Contraenti la scelta dei mezzi, tanto di natura normativa – cfr. legge Pinto e legge Azzolini -, che di natura giurisprudenziale – cfr. sentenze Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007 – per perseguire lo scopo prefissato. Ancora problematico rimane, peraltro, il rapporto tra giudicato nazionale, sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e legislazione nazionale.
Di Giovanni Romano e Paola Genito – avvocati
Attività di ricerca dott. Matteo De Longis – dottore in relazioni internazionali

SOMMARIO       
1. Premessa. 
2. Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze: gli artt.41 e 46 della   CEDU. 
3. Efficacia e diritto interno. 
4. Efficacia e giurisprudenza nazionale. 
5. Rapporto tra sentenze CEDU e giudicato nazionale.

 1. Premessa.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rappresenta uno straordinario strumento di applicazione dei principi sanciti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – da qui innanzi CEDU – firmata a Roma il 4 Novembre 1950. Tale Convenzione, lungi dall’essere una mera dichiarazione d’intenti, si poneva come scopo precipuo quello di realizzare una tutela effettiva e sostanziale dei diritti in essa stessa sanciti, e pertanto predisponeva una serie di strumenti atti a tale scopo, fra cui, come pocanzi accennato, la Corte di Strasburgo.
Senza volerci soffermare sulla storia, sulla natura e sul fondamento della Corte, nostro intento è, di qui a breve, quello di analizzare l’efficacia delle sentenze di questa Corte negli ordinamenti nazionali, con particolare riferimento, è ovvio, all’ordinamento italiano.
L’importanza di questo aspetto è talmente preponderante da apparire quasi lapalissiana, nell’ottica in cui le sentenze di condanna della Corte per violazione di diritti CEDU sono il mezzo più immediato ed incisivo per garantire il rispetto dei diritti stessi; tale questione verrà affrontata tenendo conto dei suoi aspetti formali quanto di quelli sostanziali, analizzandola tanto nel diritto quanto nella prassi, cercando di dare conto anche dei più recenti orientamenti della giurisprudenza internazionale e nazionale.

 2. Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze: gli artt. 41 e 46 CEDU
Il testo dell’art. 46 CEDU è il risultato delle modifiche apportate dal Protocollo XI (Parigi, 20 Marzo 1952) agli originari articoli 53 e 54, trasposti nel comma 1 e comma 2 dell’articolo attuale.
In effetti tali modifiche si limitano alla sostituzione del precedente termine “decision” con “final judgement”, trovando ragione nella introduzione sancita dal Protocollo XI del meccanismo di “riesame” della Grand Chambre.
L’art. 46 CEDU impone alle Alte Parti contraenti l’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parte. Occorre tuttavia precisare che tale obbligo vincola gli Stati solo in merito al fine da raggiungere, lasciando loro la discrezionalità nella scelta dei mezzi tramite cui perseguire tale scopo – in quest’ottica, il dispositivo dell’art. 46 è giuridicamente comparabile con l’art. 94 (1) della Carta delle Nazioni Unite.
La portata ed il significato effettivo di tale obbligo viene chiarito dalla Corte stessa nella sentenza 16 ottobre 2006 (2) laddove afferma che “La constatazione di violazione comporta l’obbligo giuridico per lo Stato convenuto non solo di versare le somme accordate in sede di equa soddisfazione, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri le misure generali e/o individuali da adottare nell’ordine giuridico interno per porre fine alla violazione constatata dalla Corte ed eliminarne il più possibile le conseguenze in modo da ripristinare la situazione anteriore alla violazione”, fermo restando però il principio della discrezionalità nella scelta dei mezzi per porre fine alla violazione precedentemente sancito nella sentenza 11 dicembre 2003 (3) : “Gli Stati contraenti parti del caso sono in linea di principio liberi di scegliere i mezzi da utilizzare per conformarsi ad una sentenza che constati una violazione. Tale potere discrezionale in ordine alle modalità di esecuzione di una sentenza implica la libertà di scelta in relazione all’obbligazione principale imposta dalla Convenzione agli Stati contraenti: assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà garantite (art. 1). Se la natura della violazione permette la restitutio in integrum, incombe allo Stato convenuto realizzarla, non avendo la Corte la competenza né la possibilità pratica di provvedervi essa stessa”.
L’art. 41 CEDU – Equa Soddisfazione – è quindi da ritenersi species rispetto al genus dell’art 46 nel senso che in seguito ad una sentenza di condanna della Corte di Strasburgo sorge in capo allo Stato violatore innanzitutto l’obbligo di rimuovere le cause della violazione attraverso misure generali o individuali e solo secondariamente, laddove l’accertamento della violazione non costituisca di per sè soddisfazione sufficiente, l’obbligo di corrispondere un risarcimento equo.
L’art. 46 attribuisce poi il potere di sorveglianza sulla esecuzione delle sentenze al Comitato dei Ministri, limitandosi però tale potere ad una sorta di pressione inter pares – sebbene sia previsto anche un potere di sospensione dal diritto di rappresentanza dello Stato inadempiente ex art. 8 CEDU (4).
Manifestazione tipica di questa sorta di pressione politica, sono le risoluzioni del Consiglio d’Europa che fanno il punto sullo stato della esecuzione delle sentenze CEDU; si consideri, ad esempio, la Risoluzione del Consiglio d’Europa – ottobre 2006 – intitolata “Implementation Judgement of the European Court of Human Right”(5) che fa il punto sulla applicazione della CEDU in Italia. Di seguito, diamo conto brevemente dei punti messi in risalto dal Consiglio riguardo l’Italia:

  • ritardi inaccettabili nell’implementazione delle indicazioni fornite dalla Corte di Strasburgo in merito all’applicazione della CEDU;
  • l’eccessiva durata dei processi la quale comporta, fra l’altro, anche la ineffettività ed inefficacia (i.e. mancata applicazione) di altri diritti fondamentali ad essa direttamente collegabili;
  • l’uso scorretto delle procedure di espropriazione da parte, in particolare, degli enti locali;
  • l’impossibilità di “riaprire” processi penali caratterizzati dalla non applicazione del principio del giusto processo, sebbene ciò sia stato espressamente sancito dai Giudici di Strasburgo;
     l’invito a proseguire sulla via indicata dalla Legge Azzolini: supervisione dell’implementazione interna dei principi sanciti dalla CEDU, da parte di Governo e Parlamento.
    La ratio della attribuzione del potere di sorveglianza sulla esecuzione al Comitato dei Ministri risiede nell’art. 3 dello Statuto della organizzazione che recita “ogni membro del Consiglio d’Europa deve accettare i principi della preminenza del diritto e del godimento, da parte di chiunque sia sottoposto alla sua giurisdizione, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
    Tale controllo si esplica tanto sugli obblighi di cui all’art 46, quanto sugli obblighi di cui all’art. 41 CEDU, sempre con riguardo soltanto al vincolo di risultato; a tal proposito, va fatto notare come, per prassi, spetti alla Direzione dei diritti dell’Uomo – e non al Comitato – esprimersi sulla eventuale inadeguatezza della misure prospettate dallo Stato allo scopo di porre fine alle violazioni strutturali.
    La pubblicazione stessa della sentenza può essere considerata misura generale nella parte in cui, stigmatizzando il comportamento illecito, serve a prevenire il ripetersi del comportamento sbagliato dello Stato. Ciò detto, va però sottolineato come nella maggior parte dei casi il risultato finale consista in una modifica dell’ordinamento interno che ponga fine alle cause della ripetuta violazione, o che istituisca strumenti di ricorso interno per i danni derivanti dalla violazione – è questo il caso della cd. Legge Pinto.
    Sempre in tema di esecuzione delle sentenze CEDU, una innovazione significativa viene introdotta dal Protocollo 14 attribuendo al Comitato dei Ministri il potere ulteriore di chiedere alla Corte l’interpretazione – autentica diremmo noi – delle proprie decisioni, e di chiederle di pronunciarsi, qualora lo Stato rifiuti di conformarcisi, sulla conseguente violazione dell’obbligo di esecuzione di cui all’art. 46.
    Una evoluzione importante viene poi dalla Risoluzione del Comitato dei Ministri del 12 Maggio 2004, in cui si invita la Corte ad indicare già nella sentenza dove risiedono i motivi della violazione strutturale e quali ritenga che siano i correttivi più appropriati per far cessare tale violazione.

 3. Efficacia e Diritto Interno
Da quanto detto finora si evince che siamo di fronte ad una sorta di efficacia diretta mediata dallo Stato: spetta infatti a quest’ultimo predisporre gli strumenti necessari alla piena attuazione delle sentenze provenienti dal giudice di Strasburgo.
Questa impostazione è stata tuttavia criticata dalla dottrina che vede nell’obbligo di conformarsi alle sentenze CEDU, che entra nel nostro ordinamento ex art. 117 con rango sub-costituzionale, un limite negativo alla attività legislativa dello Stato. Con ciò si intende dire che, fermo restando il principio della discrezionalità nella scelta dei mezzi con i quali perseguire lo scopo indicato nella sentenza CEDU, un atto normativo contrario alla Convenzione sarebbe da ritenersi illegittimo con riferimento diretto all’art. 117 della nostra Costituzione (6).
Abbiamo finora dato conto della lettera della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, facendo soltanto un rapido accenno alla sua collocazione sistematica nel diritto interno. Con riguardo a quest’ultima questione ci pare utile soffermarci – seppur rapidamente rinviando per una trattazione più dettagliata ad altri lavori – sugli strumenti giuridici predisposti dal legislatore nazionale per dare piena efficacia e garantire piena esecuzione alle sentenze CEDU. Si tratta invero di misure che risolvono solo in parte la questione, affrontando di volta in volta la materia sulla quale la Corte ha censurato l’Italia.
E’ questo il caso della c.d. L. Pinto del 2001 che ha introdotto nel nostro ordinamento una via di ricorso che permette di addivenire ad una equa riparazione per “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Questa legge è emblematica del funzionamento dei rapporti fra CEDU e ordinamento interno: la Corte di Strasburgo ravvisa una violazione strutturale, condanna ripetutamente lo Stato, nelle sentenze di condanna fa le sue osservazioni, lo Stato le recepisce e le tramuta in legge. Nel caso di specie, la l. n. 89/2001 prevede la possibilità di adire, per la violazione dell’art 6 par. 1 della CEDU, le competenti autorità giudiziarie dell’ordinamento interno al fine di vedere riconosciuto al cittadino italiano un risarcimento del danno da irragionevole durata di un procedimento giudiziario. Orbene, in ossequio al principio di sussidiarietà, questo strumento legislativo ha avuto modo di assicurare il rispetto di una norma contenuta nella Convenzione, nonché di garantire l’effettività delle sentenze di condanna sul punto emesse, ripetutamente, dalla Corte di Strasburgo.
Con riferimento all’efficacia in generale delle sentenze CEDU nell’ordinamento italiano, duole dire che finora il legislatore non ha predisposto strumenti omnicomprensivi per la loro applicazione.
In effetti, l’unico contributo normativo in materia è rintracciabile nella l. n. 12 del 2006 – anche nota come legge Azzolini – che all’articolo 5, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dopo la lettera a) inserisce la seguente modifica:
«a-bis) promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce».
Già dalla formulazione letterale si evince chiaramente come si tratti soltanto di una attribuzione formale di competenza a vigilare sulla esecuzione delle sentenze CEDU, lasciando comunque alla discrezionalità dell’esecutivo la scelta dei tempi e dei mezzi della esecuzione. Ciò che invece a nostro parere potrebbe avere dei risvolti positivi è la presentazione al Parlamento della relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce, che parrebbe muovere nella direzione della ricerca di un ruolo parlamentare nella questione.
Tuttavia, parte autorevole della dottrina (7) ha visto in questa legge un passo in avanti significativo sul tema della esecuzione delle sentenze CEDU. In particolar modo, viene posto l’accento sulla collocazione sistematica di questa novella legislativa; essa infatti si colloca all’art. 5 della legge n. 400 del 1988, nel quale sono previste procedure simili per la ricezione e la presentazione in parlamento delle decisioni della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale. Il parallelismo riscontrabile nella legge n. 400/1988 così come emendata dalla l. n. 12/2006 parrebbe infatti, secondo taluni, delineare una sorta di statuto condiviso fra queste categorie di sentenze, equiparandole di fatto sul piano dell’efficacia. A tal proposito si potrebbe poi “rilevare che già l’articolo 1 CEDU, poiché adotta la formula “le Alte Parti Contraenti riconoscono i diritti umani” – piuttosto che la locuzione “si impegnano a riconoscere” – sta ad indicare un’immediata efficacia del diritto della CEDU quale interpretato dalla Corte Europea negli ordinamenti nazionali, con la conseguente inutilità di precisazioni normative in ambito nazionale” (8) .
La legge in esame sarebbe dunque sintomatica dell’interesse del Parlamento sulla questione, ed espressione del desiderio di svolgere un ruolo attivo, decisivo, nella implementazione delle sentenze CEDU; a conforto di tali ipotesi si tenga conto anche della rapidità nell’iter di approvazione della legge e della trasversalità dei consensi che ha ottenuto.
Ebbene, la novità più rilevante che la dottrina intravede in questa legge risiederebbe proprio nel ruolo preminente del Parlamento, rispetto al Governo, nella scelta delle politiche legislative necessarie per dare piena efficacia alle sentenze di Strasburgo; politiche che dovrebbero essere messe in atto dunque con lo strumento della legge ordinaria – e non più del decreto legge o dei decreti delegati -, tratteggiando di conseguenza una sorta di funzione di indirizzo e di controllo del Parlamento sul Governo su questo delicatissimo tema.
Tale tesi viene rafforzata dall’atteggiamento della Corte Europea di cui abbiamo dato brevemente conto più sopra: le sentenze di condanna per violazioni strutturali vengono, dal caso Broniowski del 2004 in poi, corredate di indicazioni sulle misure generali da adottare per porre fine all’anomalia causa della costante violazione. Laddove tali indicazioni implicano interventi esplicabili tramite il potere legislativo ordinario, appare chiaro come sia il Parlamento l’attore designato per l’attuazione delle sentenze CEDU nell’ordinamento nazionale.

 4. Efficacia e Giurisprudenza Nazionale
In contrasto col debole approccio legislativo, la prassi giurisprudenziale nazionale ha offerto spunti che affrontano in maniera più diretta la questione, approdando talvolta ad esiti rivoluzionari.
E’ questo il caso delle celebri sentenze della Corte Costituzionale nr. 348 e 349 del 2007, con le quali la Corte ha avuto modo di affrontare la questione dell’entrata della normativa CEDU nel nostro ordinamento.
In particolare, nei citati provvedimenti, si evidenzia che il sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo prevede uno specifico organo giurisdizionale – la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – attribuendole la competenza esclusiva per la interpretazione delle norme della Convenzione medesima. Tra l’altro, il Giudice delle Leggi affronta nelle succitate sentenze il problema dell’entrata e della collocazione sistematica della Convenzione nell’ordinamento italiano, stabilendo che il parametro di riferimento per la valutazione dell’attività normativa interna non è solo la lettera della norma della Convenzione, ma l’interpretazione autentica che la Corte da di essa.
A tal proposito la Corte ha ritenuto che gli obblighi derivanti dalle norme internazionali, così come previsto dall’art 117 della Costituzione, costituendo un limite all’attività normativa dello Stato, occupano una posizione intermedia tra le norme costituzionali e le norme ordinarie. Così facendo, la Corte ha esplicitamente attribuito alla CEDU il rango di norma sub-costituzionale, negandone l’ingresso con rango costituzionale ex art. 10 Cost. – trattandosi di diritto internazionale pattizio e non consuetudinario – e altresì negandone l’ingresso ex art. 11 Cost. statuendo la non assimilabilità della CEDU ad un ordinamento internazionale pienamente definito – come ad esempio invece viene considerata la UE.
Con specifico riguardo alla efficacia ed esecuzione della Corte di Strasburgo, la Corte però fa un passo indietro e, ad onta dell’art 46 CEDU, esclude la vincolatività incondizionata delle decisioni della Corte Europea ai fini del controllo di conformità costituzionale delle leggi nazionali (9).
In seguito a tali pronunce, il rapporto fra giudicato interno e sentenze CEDU non è stato del tutto chiarito, lasciando al giudice nazionale il compito di dirimere la questione caso per caso; esempio archetipico di questa situazione, che noi definiremmo fumosa, è la ormai celeberrima vicenda Dorigo, su cui la Corte Costituzionale si è recentemente espressa.

 5. Rapporto fra sentenze CEDU e giudicato nazionale
Sullo stesso caso, si é ancor prima pronunciata la Corte di cassazione con la sentenza n. 2800/2006, affermando il rivoluzionario principio di diritto in base al quale il giudicato interno viene travolto, anche in assenza di misure nazionali di attuazione, da una sentenza CEDU che accerti la esistenza di una pronunzia di condanna emanata in violazione delle regole dettate dall’art.6 della Convenzione Europea (10).
Secondo quanto affermato dai giudici della suprema corte, poteva, in tal modo, risolversi il circolo vizioso per cui, da un lato, il principio del giudicato impediva l’attuazione della sentenza della Corte di Strasburgo che accertava la violazione dei principi garantiti dalla CEDU, e dall’altro, ci si trovava di fronte alla impossibilità di riaprire il processo in conformità ai citati principi di fronte agli insormontabili ostacoli del sistema processuale nazionale (11).
Gli approdi ermeneutici cui era giunta la Corte di Cassazione con la sent. n. 2800 del 1 dicembre 2006 (12) – che disponeva la sospensione dell’esecuzione in seguito alla pronuncia di iniquità del processo pervenuta dalla CEDU – sono stati prontamente disattesi nella recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 129/2008, che costituisce, finora, l’epilogo della vicenda processuale nota come “caso Dorigo”.
Investito della questione di costituzionalità dell’art. 630 c. 1 lett. a) c.p.p. dalla Corte d’appello di Bologna nell’ambito di un processo di revisione (13), il giudice delle leggi ne ha dichiarato l’infondatezza con riferimento a tutte le eccezioni di costituzionalità invocate dal giudice a quo.
La censura sollevata sotto il profilo dell’art. 3 Cost si basa sull’ingiustificata discriminazione tra casi uguali o simili cui porterebbe la mancata previsione, tra le ipotesi di revisione ex art. 630 c. 1 lett. a) c.p.p., di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che confligga col giudicato interno. L’infondatezza della questione sotto questo profilo deriverebbe, secondo la Corte Costituzionale, dall’impossibilità di considerare – ex art. 630 c.p.p. – alla stregua di “fatto” le sentenze delle Corti Internazionali che intervengono sul giudicato e che si discostano dalla valutazione del giudice nazionale. In altri termini, l’accertamento dell’invalidità di una prova contenuta nella sentenza della Corte europea non può essere logicamente, né sistematicamente, equiparata ai “fatti” di cui all’art. 630 c.p.p. in quanto questi devono essere intesi in senso prettamente storico-naturalistico.
Il secondo profilo di illegittimità costituzionale deriverebbe, secondo la corte remittente, dalla natura consuetudinaria, e perciò dalla diretta applicabilità nell’ordinamento interno del principio di non colpevolezza sancito all’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo, principio che, sempre secondo il giudice a quo, si sostanzia anche nel diritto alla revisione di una condanna pronunciata in violazione delle garanzie dell’equo processo. Sotto questo aspetto la norma interna, e cioè l’art. 630 c.p.p., sarebbe in contrasto con l’art. 10 Cost -che prevede un adattamento automatico dell’ordinamento interno alle norme consuetudinarie di diritto internazionale- nella parte in cui esclude la revisione di un processo allorquando la corte abbia accertato un vizio fondamentale nella procedura precedente. La questione, sotto questo profilo, viene motivata da un lato, dalla natura pattizia e non consuetudinaria della norma invocata dal remittente, restando quindi escluso l’ambito di operatività dell’art. 10 Cost, e dall’altro, dalla discrasia esistente tra principio di innocenza e diritto alla revisione, essendo il primo posto a tutela dell’imputato durante l’iter processuale e fino alla sua conclusione – in altre parole, solo e soltanto prima della formazione del giudicato -, dissolvendosi necessariamente allorché il processo è giunto al proprio epilogo (14).
Ugualmente infondata è la terza censura sollevata dalla Corte remittente con riferimento all’art. 27 c. 3 Cost, sotto lo specifico profilo della funzione rieducativa della pena. La frustrazione del contenuto ontologico dello strumento punitivo derivante, secondo il giudice a quo, dall’ingiustizia di un processo non equo, viene smentita dalla Corte Costituzionale attraverso il richiamo a tutta l’antecedente giurisprudenza (15) che afferma l’impossibilità di investire le regole del giusto processo di funzione strumentale alla rieducazione, pena la produzione di una paradossale eterogenesi dei fini”, idonea persino a vanificare la stessa presunzione di non colpevolezza.
Più che le singole questioni interpretative che hanno determinato la pronuncia di infondatezza, appaiono interessanti le conclusioni cui la Corte è pervenuta innanzitutto, in merito alla carenza nell’ordinamento nazionale di strumenti preordinati a garantire l’effettività dell’art. 46 CEDU – specie alla luce dell’opposta soluzione ermeneutica prospettata dalla Corte di Cassazione sulla stessa vicenda processuale; non meno interessanti sono le possibili aperture interpretative che, come parrebbe suggerire la sentenza, potrebbero derivare dalla presentazione di una nuova questione di legittimità diversamente posta.


Sotto il primo profilo deve rivelarsi come la Corte non trascuri l’innegabile dato di fatto che si concretizza nella mancata predisposizione da parte dello Stato italiano di misure interne atte a garantire la piena operatività delle sentenze emesse dalla Corte Europea. Di fronte, infatti, ad una sentenza CEDU che sancisca la violazione del principio dell’equo processo, la sentenza interna, ormai divenuta irrevocabile, sembra necessariamente destinata a spiegare comunque i suoi effetti, senza che siano ipotizzabili rimedi suppletivi quali l’incidente di esecuzione o il processo di revisione. Proprio con riferimento a questo aspetto, la sentenza della Corte Costituzionale approda a conclusioni opposte rispetto alla sentenza della Cassazione del 2007, ritenendo indispensabile un intervento legislativo per l’adozione dei provvedimenti necessari per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle decisioni della Corte europea, in presenza dell’accertamento di violazioni dei principi sanciti dall’art.6 della Convenzione (16). A supporto di tale conclusione, la Corte sottolinea, nelle sue argomentazioni, l’esistenza di una varietà e molteplicità di soluzioni legislative possibili tale da inibire l’adozione di una sentenza additiva. L’esigenza di un intervento legislativo sistematico si percepisce come stringente anche solo considerando le conseguenze cui porterebbe l’automatica applicazione dell’istituto della revisione nonchè l’ineseguibilità del giudicato a norma dell’art. 670 c.p.p (17).
E’ stato infatti sottolineato che la possibilità di accedere ad un processo di revisione porterebbe, per come è attualmente concepito l’istituto (18) , ad un giudizio assolutorio che non può e non deve considerarsi automatica conseguenza dell’accertamento di una violazione dell’art. 6 CEDU derivante dalla sentenza internazionale. L’accertata illegittimità delle procedure conseguente, nel caso di specie, all’uso di materiale probatorio illegittimo, non significa necessariamente postulare l’erroneità della condanna, portando tuttavia alla necessità di ricelebrazione dell’intero processo giudicato iniquo o, almeno, di parti di esso.
Sotto il secondo aspetto, deve rilevarsi che la sospensione dell’esecuzione pronunciata ai sensi dell’art. 670 c.p.p., avrebbe il paradossale effetto di congelare la situazione processuale, lasciando sospesa senza termine la condanna e senza che alcuna autorità risulti investita della celebrazione di un nuovo processo, che rispetti i canoni della equità.
Resta da stabilire a questo proposito – ed è proprio qui che si sostanzia la questione della efficacia ed esecuzione delle Sentenze CEDU -, il rapporto tra la statuizione della Cassazione nella sent. 2800/2007, pronunciatasi nel senso dell’obbligo per il giudice dell’esecuzione di dichiarare l’ineseguibilità del giudicato anche in assenza di un apposito rimedio legislativo per la rinnovazione del giudizio, e quella della Corte Cost. nella sentenza 129/2008. Il fatto che tale pronuncia abbia riguardato la questione di costituzionalità dell’art. 630 e non dell’art. 670 del codice di procedura penale, nonché l’assenza di qualsivoglia riferimento in tale sentenza alla decisione della Suprema Corte, non sembrerebbe determinare un contrasto tra le due statuizioni. Conseguentemente, allo stato attuale, il giudicato formatosi all’esito di un processo dichiarato iniquo dalla Corte Europea sarebbe travolto, attraverso l’incidente di esecuzione, ma non invece con un processo di revisione. A tal proposito, ci sia concesso esprimere la nostra personale opinione: sarebbe invero auspicabile, in ossequio ai principi di certezza della pena, equità del processo, trasparenza e chiarezza del diritto, una soluzione di tipo opposto. Il legislatore dovrebbe, a nostro personalissimo avviso, includere le sentenze derivanti da Corti Internazionali nelle fattispecie di cui all’art 630 c.p.p., prevedendo quindi la possibilità di revisione – ovvero di ricelebrazione – del processo, onde evitare sospensioni della pena non espressamente previste dalla procedura.
Anche l’eventuale possibilità che la Corte addivenga, in futuro, e di fronte ad un’ordinanza di rimessione diversamente formulata, ad una soluzione differente, come, secondo alcuni, la pronuncia stessa farebbe intendere (19), lascerebbe comunque il problema irrisolto. L’adozione di una sentenza additiva che realizzi la restitutio in integrum del condannato resta preclusa di fronte all’ampio ventaglio di scelte normative in concreto ipotizzabili, e la cui valutazione ed attuazione costituiscono comunque un’esclusiva prerogativa del legislatore nazionale.
Se si esclude quindi che l’attività ermeneutica della giurisprudenza possa svolgere funzioni di supplenza giudiziaria, non resta che attendere il superamento della reticenza dello Stato a rinunciare alla esclusività assoluta della sua potestà punitiva.

(1)Carta delle Nazioni Unite. Art.94, comma 1 “Ciascun Membro delle Nazioni Unite si impegna a conformarsi alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia in ogni controversia di cui esso sia parte. comma 2. Se una delle parti di una controversia non adempie agli obblighi che le incombono per effetto di una sentenza resa dalla Corte, l’altra parte può ricorrere al Consiglio di Sicurezza, il quale ha facoltà, ove lo ritenga necessario, di fare raccomandazioni o di decidere circa le misure da prendere perché la sentenza abbia esecuzione.”

(2)De Trana c. Italia – Seconda Sezione – sentenza 16 ottobre 2007 (ricorso n. 64215/01)

(3) Carbonara e Ventura c. Italia – Seconda Sezione – sentenza 11 dicembre 2003( ricorso n. 24638/94)

(4)“… qualsiasi membro del Consiglio d’Europa che abbia seriamente violato l’articolo 3 può essere sospeso dai suoi diritti di rappresentanza e il Comitato dei Ministri può chiedergli il ritiro.”

(5) Resolution 1516 October 2006, Council of Europe. Per un contributo in materia cfr. Nicholas Scott “La risoluzione del Consiglio d’Europa 2006 in merito all’applicazione della CEDU in Italia e nell’UE” (online), http://www.eurojuris-project.eu/readnews.php?letter_id=16

(6) Cfr Sent C. Cost. Nr 348 e Nr. 349 del 2007

(7) Cfr Carla Ciuffetti, “La legge n. 12 del 2006: alla ricerca di un ruolo parlamentare in tema di attuazione delle sentenze della Corte di Strasburgo” in “Diritti dell’uomo. Cronache e Battaglie” anno XVII n.2 del 2006 – Roma – Editore: Unione forense per la tutela dei diritti umani.

(8) C. Ciuffetti, cit.

(9) Par. 4.7 della sentenza n. 348: si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli.
(10)Nella sentenza esaminata, i giudici di legittimità affermano il citato principio appunto in presenza di una sentenza CEDU che accerta che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea, riconoscendo al condannato il diritto alla rinnovazione del giudizio. Più specificamente, ed in conseguenza del principio di diritto enunciato in sentenza, la Corte ha disposto l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sentenza 3 ottobre 1994 della Corte di Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei confronti di Paolo Dorigo.

(11) In dottrina, si veda Andrea Filippini, “Il caso Dorigo, La CEDU e la Corte costituzionale: l’effettività della tutela dei diritti dopo le sentenze 348 e 349 del 2007”, in www.costituzionalismo.it.

(12) Cassazione italiana, Prima Sezione Penale, sentenza n. 2800 del 01 dicembre 2006, depositata il 25 gennaio 2007 (caso Dorigo), Presidente E. Fazzioli, Relatore G. Silvestri. Esecuzione – condanna giudicata non equa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – mancanza di un mezzo processuale per la rinnovazione del giudizio – eseguibilita’ del giudicato – esclusione.

(13) Questione sollevata in riferimento agli artt. 3, 27 e 10 Cost.

(14) Punto 4.2, diritto. Sentenza Corte costituzionale citata.

(15) Punto 4.3, diritto. Corte cost, punto 7, diritto.

(16) La Corte evidenzia la necessità di un intervento legislativo che “ adotti i provvedimenti più idonei per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della corte europea che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 CEDU”.

(17) Cfr. sent cass. N. 2800/2007

(18) L’art. 631 del codice di procedura penale contempla, infatti, tra i presupposti del giudizio di revisione, l’esistenza di “elementi tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli articoli 529, 530 o 531”.

(19) Vincenzo Sciarabba, Il problema dell’intangibilità del giudicato tra Corte di Strasburgo, giudici comuni, Corte Costituzionale … e legislatore?, in www.giurcost.org, ove si evidenzia come campeggi sullo sfondo della sentenza lo “spettro” dell’art. 117 Cost., per cui, ove un’ordinanza di rimessione sollevasse la questione di costituzionalità anche con riferimento a tale ultimo articolo, la questione stessa ben potrebbe essere accolta.