Il rimborso dell’IVA versata da chi esercita una attività esente, i rimedi interni e la possibilità di ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
(A cura dell’avv. to Egidio Lizza e del dott. Luigi Guarino).
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Ai sensi dell’art. 10, comma nn. 18 e 19, del Decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (di seguito, DPR n. 633/1972), sono esenti dall’IVA:
a) le prestazioni sanitarie di diagnosi, cura e riabilitazione rese nell’esercizio delle professioni e arti sanitarie soggette a vigilanza;
b) le prestazioni di ricovero e cura rese da enti ospedalieri o da cliniche e case di cura convenzionate nonché da società di mutuo soccorso con personalità giuridica e da ONLUS, compresa la somministrazione di medicinali, presidi sanitari e vitto;
c) le prestazioni di cura rese da stabilimenti termali.
Tale disposizione trova fondamento nell’art. 13 della VI Direttiva del Consiglio UE, 17 maggio 1997, n. 77/388/CEE, che rende esenti da IVA l’ospedalizzazione e le cure mediche nonché le operazioni ad esse strettamente connesse, assicurate da organismi di diritto pubblico oppure, a condizioni sociali analoghe a quelle vigenti per i medesimi, da istituti ospedalieri, centri medici e diagnostici e altri istituti della stessa natura debitamente riconosciuti, nonché le prestazioni mediche effettuate nell’esercizio delle professioni mediche e paramediche.
Secondo la prassi seguita dall’Amministrazione finanziaria italiana, l’esenzione non si estende ai beni e servizi acquistati per l’esercizio di attività esenti (es. attrezzature sanitarie, appalti per la costruzioni di opere, etc.); di conseguenza, su simili acquisti, il soggetto che esercita attività medico-ospedaliera dovrà versare l’IVA (Risoluzione del 1° agosto 2003, n. 167/E, Agenzia delle Entrate – Dir. normativa e contenzioso, in banca dati Fisconline).
Questa IVA, sempre secondo l’indirizzo interpretativo dell’Amministrazione finanziaria, non potrà essere recuperata in quanto l’art. 19 del medesimo DPR n. 633/1972 stabilisce che nell’ambito delle operazioni di “conguaglio” compiute dall’operatore economico “non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette ad imposta”. Pertanto, l’IVA versata su beni e servizi acquistati – per coloro che utilizzino tali beni e servizi per “operazioni esenti” – non potrà essere recuperata.
Tale indirizzo amministrativo, tuttavia, si pone in contrasto con l’art. 13, parte B), lettera c), prima parte, della VI Direttiva del Consiglio UE, 17 maggio 1997, n. 77/388/CEE, innanzi citata, in quanto la medesima Direttiva impone agli Stati membri di esentare le forniture di beni destinati esclusivamente ad un’attività esentata ove questi beni non abbiano formato oggetto di un diritto a deduzione, ex art. 17, n. 3), lettera c).
In proposito, la Corte di Giustizia della Comunità Europea, con sentenza del 25 giugno 1997, causa C-45/95 (in banca dati Fisconline), ha – su ricorso della Commissione delle Comunità europee – dichiarato che “avendo istituito e mantenendo in vigore una normativa che non esenta dall’imposta sul valore aggiunto le cessioni di beni che erano destinati esclusivamente all’esercizio di un’attività esentata o in altro modo esclusi dal diritto a detrazione, la repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 13, parte B, lettera c), della VI Direttiva del Consiglio UE, 17 maggio 1997, n. 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari”.
Facendo leva su questa sentenza, varie case di cura private (ma il discorso è valido anche per le aziende pubbliche e per i liberi professionisti) hanno chiesto il rimborso dell’IVA versata per l’acquisto di apparecchiature o altro. Numerose commissioni tributarie hanno accolto tali richieste (v. Comm. Trib. Reg. di Roma, 21 settembre 2001, n. 61; Comm. Trib. Prov. di Lecce, 14 maggio 2003, n. 537; Comm. Trib. Prov. di Brescia, 21 marzo 2003, n. 228; Comm. Trib. Prov. di Salerno, 19 settembre 2003, n. 53; Comm. Trib. di Milano, 17 luglio 2003, n. 125; Comm. Trib. di Brindisi, 5 novembre 2003, n. 214).
A sua volta la Comm. trib. prov. di Napoli, con ordinanza del 15 luglio 2004, n. 426 (in banca dati Fisconline), visto l’art. 234, comma 2, del Trattato CE, ha sottoposto alla Corte di Giustizia, in via pregiudiziale, le questioni relative al rimborso dell’IVA versata da un soggetto esente.
La Comm. Trib. Prov. di Benevento, con le sentenze nn. 226/01/04 e 227/01/04, entrambe pronunciate il 9.11.2004 e depositate il 19.01.2005, ha accolto i ricorsi proposti da due case di cura avverso il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria relativamente ad istanze di rimborso IVA in subiecta materia.
Le due pronunzie, speculari quanto alla sostanza del contenuto, hanno accolto il ricorso sulla base del fatto che: (i) a causa del mancato, integrale recepimento della VI Direttiva IVA, i contribuenti avevano portato in detrazione l’IVA in relazione all’art. 19, rimanendo indebitamente a carico degli stessi l’IVA assolta sulle forniture inerenti l’attività esente; (ii) la VI Direttiva IVA, direttamente applicabile dal giudice italiano, impone, viceversa, di esentare le forniture di beni destinate esclusivamente ad attività esenti.
Tuttavia, l’apertura del contenzioso dinanzi la Commissione tributaria provinciale competente, e l’eventuale riconoscimento del diritto al rimborso, potrebbe rivelarsi risultato effimero. Se, da un lato, la giurisprudenza innanzi citata ammette che la casa di cura (o l’azienda ospedaliera) possa direttamente chiedere il rimborso dell’IVA non dovuta versata per l’acquisto di un bene destinato all’esercizio dell’attività esente, dall’altro, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione sembra escludere la sussistenza di un rapporto diretto tra cessionario del bene o servizio e Fisco ed afferma, invece, che il cessionario medesimo deve rivolgersi al cedente chiedendo, in caso di sua inadempienza, dinanzi al giudice ordinario, la restituzione dell’IVA versata: dovrà poi essere il cedente, unico legittimato, a chiedere il rimborso all’Amministrazione finanziaria (v., in particolare, sentenza Corte di Cassazione n. 16227 del 19 agosto 2004).
Per vero, l’indirizzo prevalente della Corte di Cassazione è stato recentissimamente sospettato di contrasto con la normativa europea dalla sezione tributaria della Corte di cassazione medesima, che, con ordinanza n. 1015 del 19 gennaio 2005, ha sottoposto il relativo quesito alla Corte di Giustizia delle CE. In attesa di risposta di tale Corte, tuttavia, pare opportuno valutare le controversie sulla base dell’orientamento innanzi riferito.
Di conseguenza, se si sostiene che l’acquisto del bene, destinato ad essere utilizzato nella casa di cura per lo svolgimento di attività esente, non è soggetto ad IVA, il contenzioso tributario dovrebbe svolgersi fra cedente e Fisco.
Per consentire l’apertura di un contenzioso tra azienda di cura e Fisco, potrebbe essere opportuno costruire la controversia ponendo a fondamento della domanda l’applicazione dell’art. 19 DPR n. 633/1972. L’azienda dovrebbe cioè riconoscere che l’acquisto è soggetto ad IVA, ma dovrebbe sostenere che le è consentito inserire la relativa IVA nei suoi conteggi di dare ed avere nei rapporti con l’ufficio IVA; quindi, opporla in compensazione per l’IVA che debba versare avendola percepita da clienti (per prestazioni soggette ad IVA) o chiederne il rimborso, ove la compensazione non sia possibile per incapienza.
In due recentissime pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Dangeville c. Francia, sentenza del 16 aprile 2003, e Cabinet Diot e Gras Savoye c. Francia, sentenza del 22 luglio 2003 i giudici internazionali si sono preoccupati di valutare se le misure impositive del Governo interessato soddisfacessero le esigenze di tutela del diritto di proprietà come tutelato dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Le due pronunce contro il Governo francese scaturiscono dalla constatazione che la ritardata implementazione di un aspetto della VI direttiva comunitaria in materia di IVA, concernente l’esonero dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto per le operazioni di assicurazione e riassicurazione, aveva causato ai ricorrenti un danno pari all’IVA indebitamente versata, il cui ristoro era stato inutilmente richiesto dinanzi alle competenti autorità giurisdizionali nazionali. La Corte ha considerato che, nel caso in esame, tanto l’aver fatto venire meno il credito dei ricorrenti nei confronti dello Stato, quanto l’assenza di procedimenti interni che costituissero un rimedio efficace per assicurare la protezione del diritto al rispetto dei beni, costituiva violazione del diritto di proprietà dei ricorrenti, condannando pertanto, lo Stato francese a rimborsare l’IVA indebitamente percepita.
Sulla base di tale giurisprudenza, sembra ragionevole ritenere che la questione dell’IVA versata sugli acquisti effettuati ed inerenti all’attività di ospedalizzazione e di cure mediche, in violazione della VI direttiva, possa condurre, del pari, al riconoscimento della violazione del diritto di proprietà del contribuente e, dunque, alla condanna nei confronti dello Stato italiano a rimborsare tale imposta, sempre nel rispetto del principio del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, che condiziona la ricevibilità dell’istanza dinanzi al Giudice di Strasburgo.
Infine, si deve ricordare che la mancata attuazione di una direttiva comunitaria costituisce un illecito aquiliano: pertanto ai danni derivati da tale evento (i.e., nel caso di specie, l’IVA indebitamente versata maggiorata di interessi e rivalutazione) consegue il diritto della persona lesa ad esserne risarcita da parte dello Stato italiano inadempiente. Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento ha durata quinquennale. Il termine per l’esercizio dell’azione comincia a decorrere dalla data prevista per la trasposizione della direttiva nell’ordinamento interno. Nel caso, tuttavia, che l’indebito versamento dell’IVA, presupposto dell’azione, si sia manifestato successivamente alla data prevista per il recepimento, il termine comincerebbe a decorrere dal perfezionarsi dell’evento dannoso. L’azione dovrà essere introdotta con atto di citazione dinanzi al giudice ordinario territorialmente competente.