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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – Sezione Lavoro n. 27713 – 2 ottobre 2023 –
Rg 18398/2022 – Presidente: dott. Guido Raimondi – Consigliere Relatore dott.
Roberto Riverso

Illegittimo il licenziamento pur se intimato a fronte di offese verbali rivolte al datore di lavoro laddove il contesto in cui si è svolto il fatto contestato evidenzi un comportamento illecito e provocatorio di quest’ultimo a cui il lavoratore ha reagito emotivamente. La nozione giuridica di “insubordinazione” non è ravvisabile laddove il Fatto contestato si sia estrinsecato al di fuori del contesto aziendale.
I salari determinati dalla contrattazione collettiva possono essere disapplicati dal giudice ed il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo, che rispetti i requisiti di sufficienza e proporzionalità previsti esplicitamente dall’art. 36 Cost . Nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, 2° comma c.c., il giudice può fare riferimento ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

La sentenza in esame è di estremo interesse poiché al di là dei tecnicismi giuridici, con una prosa agile ed immune da ambizioni trattatistiche o psicologiche, pone l’accento su un aspetto spesso dimenticato dalla magistratura, oltre che dai contesti aziendali: quello umano/relazionale, e sottolinea come nella valutazione complessiva della gravità del comportamento sotteso al licenziamento debba tenersi conto che il lavoro assume per la persona un rilievo non solo in ordine alla prestazione materiale ed al ruolo aziendale, ma  alla  identità stessa della persona che lo rende (con il sé) e con le relazioni umane che determina.

Muovendo da tale imprescindibile assunto, la  Suprema Corte ha, infatti, rimarcato i confini della legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro pur a fronte di un’offesa verbale rivoltagli dal lavoratore sancendo, in conformità ad un precedente orientamento, (Cass. nn. 2692/2015 e 26930/2016, 11027/2017) che, ai fini della valutazione della  gravità del comportamento tenuto dal lavoratore e del conseguente giudizio di proporzionalità della sanzione applicata, deve necessariamente valorizzarsi il contesto nel quale il fatto contestato si è inserito con particolare riguardo al comportamento datoriale sotteso alla  reazione verbale emotiva del lavoratore, laddove tale ultima debba ritenersi scriminata o attenuata da un comportamento illecito e provocatorio del datore e sia stata commessa fuori dal rapporto di lavoro, sì da non attenere  all’esecuzione di disposizioni aziendali.

In conformità all’orientamento già consolidato, la Suprema Corte nel sancire che “non esiste la insubordinazione al di fuori del contesto dell’organizzazione aziendale”, ha altresì ribadito che non può declinarsi come insubordinazione un comportamento posto in essere fuori dal luogo di lavoro posto che  la nozione giuridica di “insubordinazione” “va giudicata in relazione ad una condotta di inadempimento all’interno del contesto aziendale, atta a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale essendo in mancanza, inidonea a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, non integrando violazione del dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c., né tanto meno giusta causa di licenziamento” (Cass. 18 settembre 2013, n. 21362; Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008).

Quanto sopra anche al fine di scongiurare di ricadere in  “una visione dispotica del rapporto di lavoro” (assume la Corte Suprema) atta a configurare una insubordinazione in ogni genere di offesa verbale ad un proprio superiore, anche al di fuori dal contesto aziendale.

Ma la sentenza in esame si appalesa di estrema rilevanza anche e non di meno poiché, in un momento storico in cui le forze politiche si dibattono intorno al concetto ed alla determinazione del “salario minimo”, la Suprema Corte, traendo spunto dalla vicenda sottoposta a gravame, riguardante la lamentata non conformità all’articolo 36 Cost. dello stipendio di un vigilante nonostante fosse quello indicato dal Ccnl Servizi Privati, ha ricordato che tale “concetto” è già presente nella Costituzione del nostro Paese  la quale con l’art. 36 ha inteso garantire al lavoratore due diritti distinti, i quali,  nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda: quello ad una retribuzione «proporzionata» alla quantità e qualità del lavoro prestato e quello ad una retribuzione «sufficiente», ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti.

In sostanza, ricorda la Corte, i due principi costituzionalmente garantiti stabiliscono, l’uno «un criterio positivo di carattere generale», l’altro «un limite negativo, “invalicabile in assoluto» a cui il giudice non può sottrarsi nel determinare la misura della retribuzione minima, senza che ciò possa configurare una violazione dell’autonomia collettiva su cui si basa l’ordinamento intersindacale. E questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi, in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale, soprattutto laddove si sia in presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o nulla rappresentativi

Quando si è di fronte a decisioni così pregnanti, chi le commenta rischia di deturparle con prolisse ripetizioni o inutili ammiccamenti. Per ridurre questo rischio, è bene, quindi, limitarsi a riportare la “struttura’, facendo risaltare la sua solidità e, in qualche passaggio, integrandone le considerazioni.

Orbene,  in parte motiva, la  Corte statuisce che “nell’attuazione dell’art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.”

Nel declinare il principio di cui sopra, la Suprema Corte, aderendo al già consolidato orientamento di legittimità, ha sottolineato, con estrema chiarezza che, laddove il lavoratore chieda tutela e protezione a fronte di un trattamento retributivo ritenuto non rispondente ai parametri costituzionali, pur non potendo il medesimo pretendere l’applicazione di un CCNL diverso, può chiedere  che “il giudice proceda al suoadeguamento facendo riferimento a quella del contratto di categoria non direttamente applicabile..”,  (Cass. Sezioni Unite n. 2665/1997), seguita da Cass. M. 10002/2000; Cass. N. 7157/2003, Cass. N. 9964/2003; Cass. N. 11372/2008) attraverso l’applicazione del combinato disposto dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2099, comma 2, cc (secondo cui, in mancanza di norme corporative o di accordo, la retribuzione è determinata dal giudice), ed invero, utilizzando il meccanismo di sostituzione automatica delle clausole di cui all’art. 1419, comma 2, cc (secondo cui la nullità di singole clausole non comporta la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative),   (Cass. N. 15148/2008; Cass. N.12520/2004) (Cass 2245/2006) (Cass. N. 3137/2019)  (Cass. 546/2021).

Quanto sopra, non configura violazione dell’autonomia collettiva posto che nella perdurante inattuazione dell’art. 39 Cost., l’attuazione per via legislativa dell’art. 36 Cost.,non comporta il riconoscimento di efficacia erga omnes del contratto collettivo, ma l’utilizzazione dello stesso quale parametro esterno con effetti vincolanti (cfr. Corte Cost. n. 51/15).

Stante  la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può infatti, ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione in quanto gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva.

Ne discende che la violazione dell’art. 36 Cost. è denunciabile anche se la retribuzione corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo poiché la  nostra Costituzione ha accolto una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente, ossia adeguata ad un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all’autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi.

La sentenza in esame, lungi, quindi, dall’intento di esautorare le Organizzazioni Sindacali dai ruoli e dai poteri loro conferiti, rimarca semplicemente che nella materia retributiva, è la stessa norma costituzionale ad imporre un parametro esterno al rapporto di lavoro e ad esso eteronomo (anche a soggetti non obbligati all’applicazione del CCNL o anche al di fuori del CCNL altrimenti legittimamente applicato) allo scopo di attuare il principio della giusta retribuzione di ciascun lavoratore.

Tale pronuncia si inserisce benvero, nella scia ed in linea con l’evoluzione giurisprudenziale delineatasi in relazione alle più recenti realtà economico- sociali, le quali hanno messo vieppiù in risalto il problema della compatibilità con l’art. 36 Cost. delle tariffe salariali previste da contratti collettivi nazionali anche sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil, (un tempo parametro della retribuzione proporzionata e sufficiente,)in special modo nel settore cooperativo ed in quello della vigilanza privata  (Cass 4622/2020 ; Cass. 6421/20; Cass. 10851/2019;  Cass. 5189/2019; Cass. 4951/2019; Cass. 4808/2019; Cass. 38666/2021; di merito:  Tribunale di Milano n. 1977/2016; Corte Appello Milano n. 1885/2017); Tribunale di Torino, n. 1128/2019; Tribunale di Milano n. 673/2022;  Corte di Appello di Milano n. 707/2021 e 580/2022; n. 695/2021; Trib Venezia n. 73/2022; Trib Venezia n. 317/2022) mettendo peraltro, a nudo nel contempo la condizione di crisi della contrattazione collettiva e, specialmente, del ruolo di autorità salariale che essa ha tradizionalmente rivestito evidenziandone la debolezza e l’incapacità di contrattare un costo del lavoro adeguato a garantire livelli di sufficienza della retribuzione, nelle attuali condizioni del mercato del lavoro e la rispondenza  della retribuzione percepita dal ricorrente ai dettami dell’art. 36 Cost., concordando (talvolta) salari che si avvicinano e si confondono con gli istituti tipici del welfare.

 Una realtà che ha evidenziato, non solo ritardi abituali dei rinnovi  contrattuali che hanno impedito di fatto, un effettivo adeguamento dei salari ai cambiamenti economici, ma altresì una frammentazione della rappresentanza che ha comportato la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di “contratti pirata”), nonché la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie con la conseguente proliferazione del numero dei CCNL da cui è derivata la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro e la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi.

La sentenza in esame

Per garantire una retribuzione corrispondente ai parametri costituzionali, prosegue poi la Suprema Corte, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, 2° comma c.c., il giudice può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, quali la soglia di povertà calcolata dall’Istat, l’importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità e l’importo del reddito di cittadinanza, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 la quale, in  materia di adeguatezza dei salari, sopra indicata, mira a conseguire gli obiettivi della dignità del lavoro, dell’inclusione sociale e del contrasto alla povertà, attraverso la «convergenza sociale verso l’alto» dei salari minimi (art. 1 comma 1) tenendo conto “anche della necessità del lavoratore di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.

In linea con quanto già sancito nella recente ordinanza n. 17698/2022, la Suprema Corte non ha omesso di sottolineare come anche  la previsione del salario minimo legale già suggerito dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro  nel 1928, preveda l’introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali, mentre la convenzione OIL n. 131/1970, che l’Italia non ha ratificato, impegna a stabilire un sistema di salari minimi che protegga tutti i gruppi di lavoratori dipendenti (art.1), aggiungendo che “ i salari minimi devono avere forza di legge e non potranno essere abbassati” (art. 2).

Altre disposizioni in materia sono dettate dall’art. 4 della Carta sociale europea e negli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; ed inoltre dal Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017, che nel punto 6, lettera a) prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso, mentre la lettera b) impegna all’implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia.

La sentenza si conclude con una nota a monito al legislatore “che deve operare politiche di valorizzazione e di sostegno al reddito in funzione della promozione individuale e sociale dei lavoratori e delle indeclinabili esigenze familiari a cui lo stesso reddito deve far fronte.

Commento dell’avvocato Rosanna Pioppo del Foro di Torino, che ha rappresentato la parte ricorrente unitamente agli avvocati Giovanni Romano e Massimo Spina.