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La Suprema Corte torna a pronunciarsi sul divieto di nova in appello con l’ ordinanza n. 22489/19

La Suprema Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha riconfermato e meglio delineato i limiti del divieto di nova in appello con la recente ordinanza n. 22489/19, depositata il 9.9.2019. La vicenda ha avuto origine con il ricorso di un lavoratore contro l’azienda datrice di lavoro volto a ottenere l’accertamento del diritto al superiore inquadramento nella qualifica dirigenziale, in luogo della qualifica di quadro, per un determinato periodo di tempo trascorso alle dipendenze dell’azienda, nonché il pagamento delle differenze retributive. Innanzi al Giudice di primo grado, tuttavia, l’azienda non aveva mosso alcuna contestazione sui fatti, limitandosi ad eccepire il proprio difetto di legittimazione passiva. Soccombente, essa aveva proposto appello alla Corte territoriale competente, la quale aveva respinto il suo gravame dichiarando inammissibile, in quanto tardiva, la contestazione dei fatti svolta in appello, in violazione del divieto di nova. Solo nel giudizio di secondo grado, infatti, l’azienda aveva sollevato alcune questioni, come quella relativa alla sussistenza degli elementi di fatto caratteristici della categoria di quadro ex allegato d.p.r. n. 347/83. Istaurato il giudizio di legittimità, l’azienda rilevava come i Giudici territoriali fossero incorsi, inter alia, in un vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., per non aver valutato che nell’atto d’appello l’azienda avesse formulato dei rilievi sulla narrativa del ricorso di primo grado e sulla natura dell’azienda, come ricostruita dal lavoratore, e per aver reso una motivazione incongrua in relazione al confronto tra le mansioni svolte dal lavoratore e quelle di quadro, non avendo fatto cenno ai due documenti all’uopo rilevanti.

Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso, argomentando che la mancata valutazione delle contestazioni mosse nell’atto di appello non vale ad integrare il vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c., come novellato dal D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in l. 11 agosto 2012, n. 143 («per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»), e che, d’altra parte, a fronte della sentenza di secondo grado che ha ritenuto tardiva la contestazione dei fatti allegati dal lavoratore in primo grado, rileva che tale affermazione non è stata oggetto di specifica censura, la quale avrebbe dovuto avere ad oggetto l’error in procedendo in relazione alla possibilità di contestare in appello i fatti costitutivi del diritto azionato. La medesima considerazione circa il vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. è stata fatta dal Supremo Collegio in ordine all’omesso esame di elementi istruttori, con la precisazione che spetta al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e l’attitudine dimostrativa delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi. Con tale pronuncia, dunque, i Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito la validità del divieto di ius novorum in appello, il quale, quindi, riguarda non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma anche le eventuali nuove contestazioni sui fatti; ciò in quanto le nuove contestazioni così mosse in secondo grado, nel modificare i temi di indagine, trasformerebbero il giudizio d’appello da mera revisio prioris instantiae in un iudicium novum. Detto divieto risponde, pertanto, ad esigenze di ordine pubblico, concludendosi in un’applicazione del principio del doppio grado di giurisdizione (cfr. Cass. sent. n. 383/2007; Cass. sent. n. 12147/2004).