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La Corte di Cassazione ritorna sulle questioni dell’istanza di prelievo, della perenzione e dell’abuso del processo.

La Suprema Corte, con la sentenza n.1360 del 21 gennaio 2013, con motivazioni ancora più incisive e nel pieno rispetto dei principi invalsi in sede convenzionale, ritorna sulle questioni interessanti la presentazione o meno dell’istanza di prelievo nel processo amministrativo presupposto, della perenzione e dell’abuso del processo. In particolare, osserva la Corte, la lesione del diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole va riscontrata anche per i giudizi amministrativi, con riguardo al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza alcun limite derivante dalla mancata presentazione della istanza di prelievo, giacché le modifiche apportate dall’art. 54 comma 2 della legge n. 133 del 2008 (per il quale la domanda non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo non sia stata presentata l’stanza di prelievo), non possono incidere sugli atti compiuti precedentemente, per i quali trova applicazione il principio generale “tempus regit actum”.

Non rileva, sempre a detta dei giudici di legittimità, che, ai fini della proponibilità del ricorso per equa riparazione, l’istanza di prelievo e l’eventuale istanza di fissazione di udienza ai sensi dell’art. 9 co. 2 della legge n. 205/2000 siano prive della sottoscrizione personale della parte, mancando, in tal senso, una specifica deroga al principio generale per il quale gli atti processuali di parte sono posti in essere direttamente dal difensore costituito con rituale procura, nonostante la norma da ultimo citata preveda che la predetta istanza debba essere sottoscritta dalla parte personalmente, pena l’improcedibilità del giudizio presupposto. Ciò in quanto la violazione della norma in parola non può determinare anche effetti procedurali negativi sul diverso giudizio di equa riparazione promosso dalla parte avanti alla corte d’appello, cui non spetta stabilire se il giudizio presupposto dovesse essere dichiarato improcedibile. Secondo il collegio, poi, l’istituto della perenzione non si traduce in una presunzione di disinteresse per la decisione di merito, ma comporta solamente la necessità che le parti siano messe in condizione di soffermarsi sull’attualità dell’interesse alla decisione, con la conseguenza che la mancata presentazione dell’istanza di fissazione giustifica l’esclusione della sussistenza del danno per la protrazione ultradecennale del giudizio, ma non impedisce una valorizzazione del contegno processuale tenuto nel periodo precedente, come base per una decrescente valutazione del danno e del relativo risarcimento. Con riguardo, invece, al novero dei titolari del diritto all’equa riparazione, la Corte ribadisce che tale diritto spetta a tutte le parti del processo, vittoriose o soccombenti, ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia tenuto comportamenti processuali scorretti che si traducono in un abuso del processo. Tale circostanza deve, tuttavia, essere provata dall’Amministrazione chiamata nel giudizio di equa riparazione, non essendo sufficiente che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata. (massima curata dal dott. Luigi Serino e dalla dott.ssa Francesca Sbarra)