Le nuove frontiere giurisprudenziali dopo Lisbona
Relazione tenuta dall’avv. Giovanni Romano, in occasione del seminario di studi sul Trattato di Lisbona presso l’Università degli Studi del Sannio, nella giornata del 29 novembre 2010, che ha visto la partecipazione del Rettore dell’Università del Sannio Prof. Filippo Bencardino, del Prof. Massimo Fragola, docente di Diritto dell’Unione Europea, del Prof. Massimo Squillante, Preside della facoltà di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università del Sannio, del Prof. Gaetano Natullo, docente di Diritto del Lavoro e della Prof.ssa Rosanna Meoli, docente di Diritto dell’Unione Europea.
Negli ultimi decenni il diritto sovranazionale ha acquisito, grazie all’attività ermeneutica della giurisprudenza, una forza sempre più pervasiva rispetto alle fonti nazionali.
Da una parte è ormai acquisito che le fonti comunitarie sono dotate di una efficacia tale da prevalere sulle leggi interne, mediante la diretta applicazione da parte dei giudici comuni. Questa prevalenza ha sostanzialmente modificato il controllo sulle leggi nel nostro ordinamento, consentendo ai giudici di disapplicare le leggi, per contrasto con il diritto comunitario. Dopo la modifica costituzionale del 2001 questi principi, noti e consolidati, sono stati costituzionalizzati nell’art. 117, 1° comma, Cost., secondo cui “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Tale disposizione costituzionale aggiunge anche che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto degli “obblighi internazionali”.
Ed infatti, proprio , sul valore che deve essere attribuito ai trattati internazionali è acceso il dibattito, con applicazioni diversificate da parte dei giudici, che a volte ignorano questi vincoli, a volte li ritengono così forti al punto da disapplicare le norme interne configgenti, a volte li utilizzano soltanto al fine di offrire una interpretazione costituzionalmente adeguata della legislazione nazionale. Il problema si è posto e si pone, oggi, con maggior forza soprattutto rispetto all’efficacia della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Se si vuole dare, infatti, uno sguardo alla applicazione delle norme della Convenzione che ne hanno dato i giudici italiani, vengono fuori diverse prospettive interpretative.
In una prima prospettiva, è stato ritenuto che le norme della CEDU hanno un indubbio valore interpretativo di norme esistenti nell’ordinamento, soprattutto quando le norme stesse trovano la loro ispirazione in Fonti internazionali. In argomento, a proposito dell’interpretazione della cd. “Legge Pinto”, la Corte di Cassazione, nella sua più autorevole espressione, quali sono le sue Sezioni Unite, si è così espressa: «L’opposta tesi diretta a consentire una sostanziale diversità tra l’applicazione che la legge n. 89/2001 riceve nell’ordinamento nazionale e l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89/2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell’art. 1 della CEDU, secondo cui le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione (in cui è compreso il processo entro un termine ragionevole). Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89/2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne).Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. E tale protezione deve essere effettiva (art. 13 della CEDU), e ciò tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo».(Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza n. 1340/2004).
Il secondo itinerario interpretativo si pone come sviluppo logico del primo, ed introduce alla problematica dell’immediata cogenza, per il giudice nazionale, delle norme della CEDU.
Il problema è venuto fuori nel noto “caso Dorigo” quando è stato elevato, dai Giudici Bolognesi, a sospetto di illegittimità costituzionale l’art. 630, lett. a), del c.p.p. nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, la circostanza che i fatti stabiliti a fondamento di una sentenza (o decreto) di condanna non si concilino con la sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, che abbia accertato l’assenza di equità del processo per violazione dell’art. 6 CEDU.
La questione ha un precedente in una decisione della Corte di Cassazione (“caso Cat Berro”, Sez. I penale, 22 settembre-3 ottobre 2005, n. 35616), che ha affermato, in sede di rinvio, il principio di diritto ai sensi del quale «il giudice interno è tenuto a conformarsi» alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo con cui si riconosce che il processo celebrato in contumacia è stato non equo (vedi anche “caso Somogyi”, Sez. I penale, 3 ottobre 2006, n. 32678) ed in un’altra pronuncia della Corte di Strasburgo che ha ritenuto, per effetto del proprio giudizio di “non equità”, che la sentenza nazionale cessa di essere titolo legittimo di detenzione ai sensi dell’art. 5, comma 2 lett. a), CEDU (sentenza 3 marzo 2005, Stoichkov c. Bulgaria).
Nell’ordinanza di rimessione citata, i giudici bolognesi avevano propostoun’interpretazione che ascrive ai principi della CEDU un valore oramai consuetudinario, così da farlo rientrare tra quelle consuetudini internazionali riferite al parametro costituzionale di cui all’art. 10, comma 1, Cost..
La Corte Costituzionale ha, tuttavia, escluso tale linea interpretativa, e con la sentenza n. 129 del 2008, la Consulta ha statuito la legittimità costituzionale dell’art. 630 c. 1 lett. a) c.p.p., anche se mancante tra le ipotesi di revisione, quella del contrasto tra il giudicato e una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ed ha auspicato, in tal senso, un intervento del legislatore. “Pur dovendosi quindi pervenire ad una declaratoria di infondatezza della questione proposta dalla Corte rimettente – con specifico riferimento ai parametri di costituzionalità che sono stati richiamati – questa Corte ritiene di non potersi esimere dal rivolgere al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 della CEDU”.
Il Giudice delle Leggi, ha preferito, difatti, confermare la linea interpretativa adottata con le note sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
Tale tesi, riferisce le norme CEDU al parametro costituzionale di cui all’art. 117 comma 1 Cost. ed è stata sostenuta in tre ordinanze di rimessione della Corte di cassazione civile in tema di determinazione dell’indennizzo risarcitorio per espropriazione illegittima (ordinanze nn. 401 e 402, entrambe del 29 maggio 2006; ordinanza 26 settembre-19 ottobre 2006, n. 22357), laddove il parametro che si assume violato è l’art. 117, comma 1, Cost., a sua volta integrato dall’art. 6 CEDU e dall’art. 1 del suo primo protocollo addizionale, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo.
La Corte costituzionale con le note sentenze n. 348 e 349 del 2007, dopo un lungo e tortuoso cammino, è, dunque, arrivata a fissare dei criteri ben precisi sul valore delle norme Cedu, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, all’interno del nostro ordinamento.
Il Giudice delle leggi aveva infatti chiarito che <<l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. …Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto>> (in questi termini si è espressa anche la sent. n. 311 del 2009).
In buona sostanza, la Corte costituzionale ha ritenuto vincolante nell’ordinamento interno la CEDU, ma ha ritenuto che la prevalenza sulle leggi interne passi attraverso un tentativo di interpretazione conforme, seguito non dalla disapplicazione, ma dal classico schema della illegittimità costituzionale per violazione di norma interposta (in questo caso la CEDU si configura quale norma interposta che integra il parametro dell’art. 117, 1° comma, Cost., così come si riteneva che il diritto comunitario integrasse il parametro dell’art. 11 negli anni ’70, prima di ammettere la disapplicazione).
Il valore storico di queste pronunce non è qui messo in discussione; si vuole piuttosto prendere coscienza del fatto che esse non costituiscono solamente il punto d’arrivo di un lungo iter giurisprudenziale della Corte, dando finalmente una collocazione certa alla CEDU (e alle norme pattizie in genere) nel sistema delle fonti, ma determinano anche l’insorgere di una serie di problematiche, che prendono reale consistenza proprio dall’aver posto per la prima volta in modo certo questa pietra miliare a livello di ricostruzione sistematica: la tenuta di tali principi innovatori trova inevitabilmente il suo banco di prova nell’applicazione che ad essi viene data dalla giurisprudenza di merito, soprattutto ora che, a cambiare nuovamente le regole del gioco, è intervenuto, con forza dirompente, il Trattato di Lisbona.
Difatti, l’arresto del giudice delle leggi è stato messo di nuovo in discussione, come ci dimostra la sent. n. 1220 del 2010 del Consiglio di Stato. Il Supremo organo di giustizia amministrativa, nell’affrontare una intricata accessione invertita, con interessanti risvolti relativi alla giurisdizione relativa all’azione di restituzione dell’indebito, fa <<applicazione dei principi sulla effettività della tutela giurisdizionale, desumibili dall’articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Per la pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo (CEDU, Sez. III, 28-9-2006, Prisyazhnikova c. Russia, § 23; CEDU, 15-2-2006, Androsov-Russia, § 51; CEDU, 27-12-2005, Iza c. Georgia, § 42; CEDU, Sez. II, 30-11-2005, Mykhaylenky c. Ucraina, § 51; CEDU, Sez. IV, 15-9-2004, Luntre c. Moldova, § 32), gli artt. 6 e 13 impongono agli Stati di prevedere una giustizia effettiva e non illusoria in base al principio ‘the domestic remedies must be effective’. In base ad un principio applicabile già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il giudice nazionale deve prevenire la violazione della Convenzione del 1950 (CEDU, 29-2-2006, Cherginets c. Ucraina, § 25) con la scelta della soluzione che la rispetti (CEDU, 20-12-2005, Trykhlib c. Ucraina, §§ 38 e 50)>>. Successivamente, ha avuto la possibilità di statuire che le disposizioni contenute agli articoli 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sono “ divenute direttamente applicabili nel sistema nazionale”.
Non ci soffermiamo qui sulla correttezza della soluzione adottata, ma riteniamo assai utile riflettere sulla collocazione gerarchica proposta per la CEDU nel nostro ordinamento (e sui relativi poteri spettanti ai giudici), dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Il Trattato di Lisbona reca due importanti modifiche all’art. 6 del Trattato Unione europea relativamente alla tutela dei diritti fondamentali. Il primo paragrafo riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), che viene “comunitarizzata”. Il secondo e terzo paragrafo la CEDU, a cui si consente che l’Unione europea possa aderire. In particolare al par. 1 leggiamo:<<L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.>>. Ai par. 2 e 3 leggiamo che: <<L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali >>.
Ad ogni modo, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed, in particolare, la novellazione dell’articolo 6 TUE, hanno profondamente inciso sulla previgente architettura del sistema delle fonti. In particolare, il nuovo art.6 TUE ha statuito che “ i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Alla luce di quanto esposto, a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il giudice ordinario si vede conferire un nuovo ruolo in relazione all’applicazione delle norme CEDU: non più solo organo decentrato della Corte di Giustizia, ma anche primo guardiano del rispetto dei Diritti dell’Uomo. Ne risulta che in caso di contrasto della norma interna con le disposizioni della Convenzione, egli potrebbe anche procedere direttamente alla disapplicazione, in piena attuazione del principio del primato del diritto dell’Unione Europea.
Tale nuova prospettiva è stata avallata anche da una recentissima sentenza del TAR Lazio di Roma, n. 11984 del 18 maggio 2010, nella quale è stato specificato che a seguito della modifica operata all’art. 6 del Trattato Ce dal Trattato di Lisbona, i diritti fondamentali, tutelati dalla CEDU, si inseriscono nel diritto comunitario come principi interni al diritto dell’Unione. In tal senso, le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno.
Si aprono quindi inedite prospettive per la interpretazione conformativa, ovvero per la possibile disapplicazione, da parte di questo giudice nazionale, delle norme nazionali, statali o regionali, che evidenzino un contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a maggior ragione quando la Corte di Strasburgo si sia già pronunciata sulla questione. E se le predette considerazioni sono esatte, ciò potrà avvenire in via generale per tutti i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, e non più, come è finora avvenuto, solo nei casi in cui un diritto fondamentale della Convenzione abbia acquisito una specifica rilevanza nel diritto dell’Unione mediante il recepimento in una norma comunitaria, ovvero mediate il suo impiego, quale principio generale, in una decisione della Corte di Lussemburgo.
Nel nuovo indirizzo segnato dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si coglie proprio la svolta giurisprudenziale, non solo protesa ad individuare un preciso obbligo di conformazione del giudice interno al diritto vivente promanante dal giudice di Strasburgo, ma anche a profilare l’ultimo e consequenziale passaggio in ordine alla non applicazione del diritto interno contrastante con la CEDU.
La carica innovativa contenuta nel ragionamento di tali giudici, mette in discussione l’assetto sposato nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 ed esprime chiaramente il malessere dei giudici nei confronti della attrazione del giudizio di costituzionalità dei problemi relativi al contrasto tra diritto interno e Cedu.
A fronte di questo, tuttavia, bisogna dimostrare una certa prudenza. La dottrina mostra un certo scetticismo ed ha evidenziato che le modifiche apportate con il Trattato di Lisbona, non comporteranno l’equiparazione della CEDU al diritto comunitario, bensì – semplicemente – una loro utilizzabilità quali principi generali del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Secondo questa dottrina, quindi, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimitàcostituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale.
In questo nuovo contesto di incertezza dottrinale e giurisprudenziale bisogna, quindi, muoversi con cautela, monitorando costantemente non solo l’evoluzione della giurisprudenza dei giudici di merito ma anche quella costituzionale. Da ciò si potrà capire se le due decisioni dei giudici amministrativi resteranno isolate oppure contribuiranno ad incrementare gli sviluppi applicativi della Cedu nel nostro ordinamento.
D’altro canto l’art.6 TUE, come novellato dalla recente entrata in vigore del Trattato di Lisbona, prevede espressamente al paragrafo 2, l’adesione dell’Unione Europea alla Cedu. La previsione contenuta nell’art.6 par.2 ha infatti consentito di superare la posizione inizialmente assunta dalla Corte UE, secondo la quale “nessuna disposizione del precedente Trattato attribuiva alle istituzioni europee il potere di dettare norme in materia di diritti umani o di concludere convenzioni internazionali in tale settore”.Il contesto normativo, entro il quale sono maturate le condizioni per la prossima adesione dell’UE alla CEDU, si è materialmente concretizzato grazie alla riforma della Convenzione operata dal Protocollo N.14 che, tra gli altri interventi, ne ha modificato l’art. 59 consentendo all’UE la possibilità di adesione accanto agli Stati membri del Consiglio d’Europa.
Verrebbe riconosciuto ai singoli, infatti, fermo restando il previo esaurimento dei ricorsi interni, il diritto di adire la Corte CEDU nel caso in cui presumano violati i propri diritti fondamentali da parte delle istituzioni europee. I cittadini avrebbero, così, un’istanza giurisdizionale alla quale rivolgersi direttamente, elemento essenziale considerando la non estrema facilità di accesso per i ricorsi individuali in sede di Corte di Giustizia UE. L’Unione, poi, potrebbe designare un suo giudice in seno alla Corte CEDU, garantendo una specifica e qualificata competenza in materia di diritto europeo. Inoltre potrebbe essere previsto un apposito intervento dell’Unione nelle cause intentate contro gli Stati membri, specialmente quando abbiano ad oggetto gli ambiti discrezionali di attuazione della normativa europea, rendendo più efficace l’attuazione delle sentenze.
E’ evidente come l’Unione europea, in questa maniera, assuma una responsabilità politica, giuridica e culturale di non poco conto, una responsabilità che non può che favorirne l’evoluzione e che, di fatto, fa sì che i diritti fondamentali siano posti alla base di una nuova prospettiva socio-culturale. La presenza dell’Unione come autonomo soggetto in seno alla Convenzione potrebbe significare l’inizio di una rinnovata consapevolezza sul significato di comune cittadinanza europea; potrebbe aprire la strada ad un evoluzione dottrinale in materia di diritti fondamentali tale da segnare l’apertura di un nuovo capitolo per l’integrazione, oltre ad offrire un importante strumento di politica estera comune, con il quale far valere il rispetto dei diritti umani, almeno nell’“area” CEDU.
Avv. Giovanni Romano – Dott. Luigi Serino