Interventi e pubblicazioni

L’irragionevole durata dei processi in Italia: dalla emanazione della Legge nr. 89//2001, cd. “Legge Pinto”, all’intervento delle Sezioni Unite del 26 gennaio 2004.

RELAZIONE DELL’AVV. GIOVANNI ROMANO in occasione del Corso di Formazione Professionale in “Equa Riparazione”, organizzato dall’Associazione A.L.I.A.S., in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati di Benevento, in data 6-7 Marzo 2009.

L’irragionevole durata dei processi in Italia:
dalla emanazione della Legge nr. 89/2001, cd. “Legge Pin-to”, all’intervento delle Sezioni Unite del 26 gennaio 2004.

PREMESSA
Nel nostro ordinamento non era previsto, sino alla emanazione della Legge nr. 89 del 24 marzo 2001, alcun tipo di rimedio interno che garantisse un’adeguata non-ché “effettiva” forma di tutela giurisdizionale del diritto ad un giusto processo, sotto il profilo della durata ragionevole, così come disposto e riconosciuto all’art. 6, par. 1, CEDU.
Tale situazione di “absentia legis” aveva determinato, nel corso degli anni, un in-discriminato e generalizzato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da par-te dei cittadini italiani, da sempre vittime di un sistema giudiziario orientato ad una costante e consolidata violazione del diritto alla ragionevole durata dei processi, rischiando, di fatto, di paralizzarne il funzionamento.
Si parlava all’epoca di un vero proprio “caso Italia”, proprio a significare la sussistenza nel nostro Paese di una prassi giudiziaria che da un lato era strutturata in maniera tale da determinare violazioni generalizzate e continue della CEDU sotto il profilo della ragionevole durata, e dall’altro non contemplava l’esistenza di un rime-dio interno che consentisse di riparare le conseguenze di tali violazioni in maniera effettiva ed accessibile.
Fu proprio in questo clima, caratterizzato per un verso dai continui e reiterati moniti rivolti dai Giudici di Strasburgo e, soprattutto, dalle numerose ed ormai certe condanne gravanti sullo Stato Italiano ed, in quanto tali, incombenti sullo stesso bi-lancio nazionale, che veniva varata la cd. legge “Pinto”.
Tale normativa introduceva nel nostro ordinamento, per la prima volta, un meccanismo interno volto ad ottenere un adeguato ristoro per il caso di violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, così come espresso dall’art. 6 par. 1 della C.E.D.U.
Tuttavia, la portata innovativa del rimedio delineato dalla legge nr. 89/01 veni-va fortemente ridimensionata, nella sua dimensione applicativa, dall’interpretazione operata dalle Corti italiane, decisamente restrittiva e di netta chiusura ad ogni rece-pimento dei principi e dei canoni già elaborati e consolidati nella prassi giurisprudenziale europea.
In particolare, tra le motivazioni di rigetto più frequenti vi era l’addebito, mos-so da parte dei giudici del merito al soggetto ricorrente, della mancata allegazione dei fatti e degli elementi costitutivi sui quali fondare la propria domanda risarcitoria.
Tale interpretazione restrittiva celava un vero e proprio ridimensionamento di quei principi applicativi, posti a tutela del diritto ad un equo processo, sotto il profilo del rispetto del termine di ragionevole durata, espressi dalla giurisprudenza della Corte Europea, in particolar modo violando il consolidato principio, più volte espresso in sede comunitaria, secondo il quale una reale ed effettiva tutela del diritto sostanziale di cui all’art. 6, par. 1, CEDU non può prescindere da una visione dell’onere probatorio incombente processualmente sulla parte attrice in un senso to-talmente “liberatorio” della medesima da ogni obbligo di allegazione dei fatti costitutivi posti a fondamento della stessa pretesa risarcitoria.
Più generalmente e genericamente si potrebbe validamente sottolineare come, i primi tre anni di vita della legge de qua si caratterizzarono – anche e soprattutto a causa dell’atteggiamento di forte e netta chiusura espresso dalla Suprema Corte di Cassazione – per il consolidamento di una prassi giurisprudenziale ed applicativa co-stante in materia di equa riparazione, incentrata sui seguenti principi: non riconosci-mento dello status di diritto fondamentale al diritto al termine ragionevole; non applicabilità diretta della Convenzione e della giurisprudenza di Strasburgo in materia di equa riparazione; mancato recepimento dei criteri di accertamento e dei canoni di liquidazione del danno così come sanciti ed elaborati dalla Corte Europea.
Tale situazione di contrasto – ripetutamente censurata nelle numerose pro-nunce di condanna espresse dalla CoE – diede la stura all’ormai nota sentenza pro-nunziata sul caso “Scordino c. Italia”(1) , risalente al marzo 2003, nella quale la Corte ebbe modo di precisare che il rimedio ex lege Pinto, seppur teoricamente e poten-zialmente effettivo, dunque idoneo a soddisfare i principi di cui all’art. 35 e 13 della CEDU, risultava, di fatto, privo di tale connotazione nella sua applicazione concreta da parte delle autorità giudiziarie italiane ed in particolare della Cassazione, che rite-neva di poter garantire il rispetto del disposto di cui all’art. 6 par. 1, autonomamente, non tenendo affatto conto, cioè, della giurisprudenza consolidata in ambito comuni-tario.
In altre parole, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Scordi-no, condannò radicalmente il rimedio ex lege Pinto, stabilendo che lo strumento giu-risdizionale de quo, così come applicato, non costituisse affatto un rimedio adeguato, accessibile ed effettivo.

L’INTERVENTO DELLE SS. UU. DEL 26 GENNAIO 2004
Successivamente alla sentenza Scordino, l’orientamento della Cassazione ha ini-ziato a recepire gli indirizzi della Corte Europea e ad interpretare la CEDU confor-memente ai suoi indirizzi.
Tale processo di conformazione, di superamento del divario tra l’interpretazione nazionale ed internazionale della CEDU è culminato con le quattro pronunzie delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 26 gennaio 2004 (2).
Con tali pronunzie le Sezioni Unite della Cassazione precisarono che ai giudici di merito “spetta il compito di applicare il diritto internazionale (consuetudinario o convenzionale) e, pertanto, anche le norme contenute in Convenzioni internazionali a carattere regionale che hanno ad oggetto la costituzione di meccanismi di garanzia dei diritti umani come nel caso della Conven-zione europea per la salvaguardia dei diritti umani, stipulata a Roma nel 1950 e ratificata dall’Italia con legge del 1955: l’attuazione dei diritti previsti dalla Convenzione, infatti, deve avve-nire, in prima battuta per il tramite dei giudici interni degli Stati contraenti e solo in mancanza di tale intervento è possibile attivare il meccanismo sopranazionale presso la Corte di Strasburgo. La protezione dei diritti umani in ambito regionale europeo, dunque, si realizza, come avremo modo di esaminare più in avanti, secondo un sistema multilivello, o a geometria variabile che dir si voglia, che si snoda lungo differenti livelli di tutela integrati e coordinati tra di loro ed in cui l’elemento che fa da trait d’union tra tali sistemi è rappresentato dal giudice interno garante dell’applicazione del intero diritto convenzionale come positivizzato nelle norme della Convenzione e come enucleato in via inter-pretativa dalla giurisprudenza della Corte Europea”.
Secondo le Sezioni Unite, quindi, il Costituente non riformula, sul piano inter-no, le norme del diritto internazionale, ma fa espresso rinvio ad esse ordinandone l’applicazione all’interno dello Stato e, così operando, finisce con il riconoscere di fatto alle norme della Convenzione Europea una efficacia self – executing (non es-sendo necessaria alcuna attività integratrice da parte dello Stato per la loro diretta ed immediata applicazione sul piano interno).
Molteplici le conseguenze di tale impostazione.
Innanzitutto, da un punto di vista sistematico, ne deriva che la Convenzione Europea, una volta recepita nel nostro ordinamento attraverso la ratifica, non può non essere considerata diritto cogente, e non programmatico, da applicare al pari del diritto interno.
In secondo luogo, in omaggio al principio di sussidiarietà e a quello di solidarie-tà, principi che reggono l’intero sistema CEDU, spetta in prima battuta ai giudici na-zionali il compito di dare attuazione e proteggere tutti i diritti garantiti dalla Conven-zione, e di ripristinare i diritti lesi.
Soprattutto, i giudici interni devono applicare il diritto sostanziale della Con-venzione europea non solo per come esso è cristallizzato nel testo convenzionale del 1950, ma anche per come esso vive nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. I giudici interni, dunque, non possono più ignorare il valore cogente della CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Particolarmente meritevole di rilievo è l’iter logico – argomentativo seguito dai giudici della Cassazione, nel valutare la portata della CEDU all’interno del nostro ordinamento ed il valore da attribuire alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che della convenzione è parte integrante.
In primo luogo occorre sottolineare come i giudici delle Sezioni Unite abbiano evidenziato che, come chiaramente si desume dall’art. 2, comma 1, della legge n° 89/2001, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione da essa previ-sta è costituito dalla “violazione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della convenzione. La legge, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della Convenzione Europea, che ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle. Poi-ché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge n. 89/2001 consiste in una determinata viola-zione della CEDU, spetta al giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuri-dico, che, pertanto, finisce con l’essere “conformato” dalla corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge nr. 89/2001, ai giudici italiani”.
Come detto, i giudici di legittimità hanno rilevato la superfluità del problema dei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento interno, osservando che, qualunque sia l’opinione che si abbia su tale controverso problema, è certo che l’applicazione diretta nell’ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla legge n° 89/2001 (e cioè dall’articolo 6, par. 1, nella parte relativa al “termine ragionevole”), non può mai discostarsi dall’interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo.
Non poteva continuare ad ignorarsi che la prima ragione che ha portato all’approvazione della legge Pinto è da individuare nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU.
Sul principio di sussidiarietà si fonda, in effetti, tutto il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, con obbligo da parte degli Stati, che hanno ratificato la CEDU, di garantire agli individui una effettiva protezione dei diritti riconosciuti sul piano convenzionale innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale.
Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno, e, quindi, della effettività di quest’ultimo, è, ovviamente, la Corte europea, alla quale spetta di fare applicazione dell’art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa.


Ostinarsi a sostenere che il giudice nazionale potesse seguire una interpretazione, in materia di irragionevole durata dei processi, difforme da quella costantemente seguita dai giudici di Strasburgo, in presenza di una riparazione riconosciuta al ricorrente, giudicata incompleta in sede europea, avrebbe portato a valutare come ineffettivo il rimedio interno con violazione del principio di sussidiarietà.
Ciò avrebbe determinato quella che, in dottrina, è stata da più parti ritenuta come una vera e propria “rottura” della Convenzione.
Le Sezioni Unite hanno, quindi, concordato con i giudici europei nel ritenere che “deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione” portando avanti il processo di adattamento del diritto interno a quello internazionale.
Il dovere di interpretare la normativa interna in modo conforme alla CEDU, per come quest’ultima vive nella giurisprudenza europea, opera, però, per quanto possibile, non potendosi certo giustificare interpretazioni non conformi alla legge, alla quale il giudice è sempre sottoposto.
Correttamente, i giudici delle Sezioni Unite hanno, però, contestualmente os-servato che “un’eventuale contrasto tra la legge n. 89/2001 e la CEDU porrebbe una questione di conformità della stessa con la Costituzione che, come si è visto, tutela lo stesso bene della ragionevole durata del processo, oltre a garantire i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2). Occorre, allora, accertare se possa darsi alla detta legge un’interpretazione che sia conforme alla CEDU, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui va preferita l’interpretazione della legge che la renda conforme alla costituzione”.
Occorre sempre una interpretazione della legge interna, che sia in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, evitandosi, in tal modo, i dubbi di contrasto della stessa legge con la Costituzione italiana.
Infine, con l’intervento del 2004 le Sezioni Unite hanno abiurato la dicotomia tra danno-evento e danno-conseguenza, invalsa fino a quella data, per giustificare la pretesa dell’assolvimento di un grave onere probatorio a carico della vittima della durata irragionevole della procedura, ricostruendo in via definitiva la natura giuridica del diritto tutelato e giustificandone indirettamente il risarcimento automatico, subordinato all’accertamento del dato temporale irragionevole.
Ed infatti, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare – segnatamente con la sentenza nr. 01338 del 26.01.2004 – che, in tema di equa riparazione “ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali: sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale “in re ipsa”, ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogni qualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente”.
Tali principi costituiscono ancora oggi i saldi principi su cui si fonda il riparto dell’onere probatorio in materia di equa riparazione da irragionevole durata dei pro-cessi.

(1) Sentenza pronunziata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sul caso Scordino c. Italia, del 27 marzo 2003, consultabile anche al seguente url: http://www.dirittiuomo.it/News/News2003/Caso Scordino.htm .

(2) Cfr. Cassazione SS.UU. Civ., sentenze nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004, consultabili integralmente anche sul sito: www.avvocatoromano.it