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CEDU – Sezione III – Sentenza 02 marzo 2006 – Ricorso nr. 64088/00. Ingiusta detenzione – assenza rimedi interni – violazione art. 5 CEDU – sussiste.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pronunciandosi su un ricorso presentato al fine di ottenere il riconoscimento del danno patito per ingiusta detenzione, ha accertato e riconosciuto l’avvenuta violazione dell’art. 5, parr. 1 e 5, CEDU, condannando, per l’effetto, il Governo italiano al risarcimento del danno morale subito nella misura di € 11.000,00, oltre spese di lite, rilevando, in particolare, come, nel caso di specie, nessuna disposizione di legge “interna” potesse consentire al ricorrente di presentare domanda volta all’ottenimento dell’equo indennizzo per ingiusta detenzione.

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In particolare, assumeva l’istante che la durata del giudizio svoltosi dinanzi ai Giudici italiani non fosse stato conforme al dettato degli artt. 5 (in particolare, parr. 3, 4, 5) e 6 (par. 1) della Convenzione. Invero, se è vero che “ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha diritto di presentare un ricorso ad un Tribunale, affinché decida, entro breve termine, sulla legittimità della propria detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzioni risulti illegittima (art. 5, par. 4); che “ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni di cui all’art. 5, CEDU, ha diritto ad una riparazione”; che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti a un Tribunale… al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile… (art. 6, par. 1), poiché la principale causa del ritardo verificatosi nel giudizio in esame è da ascrivere all’impossibilità oggettiva, per i giudici, di applicare sia la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sia il Codice di Procedura Penale, per le carenze di strutture, personale e di mezzi adeguati all’enorme mole di contenzioso (solo a distanza di due anni e tre mesi dall’originaria richiesta del condannato e di un anno e cinque mesi dalla definitiva espiazione della pena, la Corte d’Appello adita riconosceva che al ricorrente dovesse essere applicato l’indulto nella misura di mesi nove e giorni quattro di reclusione), non avendo lo Stato italiano adottato tutte le misure idonee a porre rimedio a tale situazione, ogni responsabilità non può non gravare sullo stesso.