Di particolare interesse il percorso ermeneutico seguito dalla Corte nella decisione in esame.
In primo luogo, viene confermata la qualificazione dell’occupazione acquisitiva quale espropriazione di fatto, in quanto tale costituente una tipica forma di interferenza nel diritto di proprietà, così come previsto all’art. 1, Protocollo 1. Ed infatti, la Corte, nel tentativo (perfettamente riuscito) di addivenire ad una tutela sempre più effettiva dei diritti, pone un argine avverso le qualificazioni formali adottate dagli Stati le quali consentono, di fatto, di aggirare i divieti posti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ne deriva, pertanto, una valutazione del tutto diversa ed opposta a quella invalsa nella nostra giurisprudenza la quale, nel porre l’accento sul concetto di “acquisto a titolo originario” del bene da parte della P.A., tralascia (volutamente ed indebitamente) la ben più rilevante questione dell’interferenza di quest’ultima nel diritto di proprietà del privato. Ovviamente, seguita nell’analisi la Corte, per potersi parlare di espropriazione di fatto è necessario che siano contestualmente presenti i seguenti requisiti: 1)un comportamento di uno Stato; 2)l’indisponibilità tendenzialmente permanente di un bene privato; 3)un nesso di causalità tra i primi due requisiti; ciò prescindendo dall’ipotesi in cui vi sia o meno un atto (un provvedimento formale) sulla base del quale avvenga il trasferimento della proprietà.
In secondo luogo, viene affermata e ribadita la contrarietà dell’occupazione acquisitiva all’art. 1, prot. 1, per difetto del requisito della legalità, cioè della conformità dell’istituto ad una previsione di legge interna. In particolare, la CEDU condanna la presa di posizione della nostra giurisprudenza di legittimità la quale, con diverse pronunce, peraltro successive alle note sentenze CEDU relative ai casi “Belvedere Alberghiera” e “Carbonara e Ventura” c. Italia, (precisamente con le sentenze a SS. UU. nr. 5902 e 6853 del 2003), seguendo il solco, già tracciato dalla Consulta con sentenza nr. 188/95, dell’”assoluzione” di fatto dell’occupazione acquisitiva, ha ritenuto conforme alla Convenzione l’istituto in parola allorquando non manchi o non sia venuta meno la dichiarazione di pubblica utilità, quasi (anzi di fatto) scindendo il requisito dell’interesse generale da quello della conformità alla legge. Chiarisce, invece, la Corte di Strasburgo che ogni forma di occupazione acquisitiva, lungi dal porsi quale alternativa “valida” al procedimento di espropriazione formale disciplinato dalla legge, è contraria alla norma convenzionale in tutte le sue forme e manifestazioni, indipendentemente dalla presenza del requisito dell’”interesse generale”.
La Corte prende posizione, altresì, sul quadro normativo vigente nel nostro Paese, rilevando come, dal momento in cui le disposizioni di cui alla legge nr. 662/1996 (legge finanziaria) e all’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, che espressamente contemplano l’ipotesi dell’occupazione acquisitiva, consentiranno all’amministrazione di trarre indebito vantaggio da un proprio comportamento illegittimo non potrà dirsi rispettata e garantita la qualità della legge necessaria e sufficiente a soddisfare il principio di legalità.
Resta, in ogni caso, sempre ferma la possibilità, ad avviso dei Giudici di Strasburgo, il diritto alla restitutio del bene illegittimamente sottratto ovvero, su richiesta dell’interessato, al risarcimento integrale del danno (vedi, peraltro, in conformità, anche quanto affermato e statuito dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria con la sentenza nr. 02/2005).